Il peggio di noi
La scorsa settimana abbiamo riportato fedelmente le palpitazioni segrete dei nostri sentimenti riguardo a... PlayStation 5 e le sue rivelazioni.
Oggi dunque abbiamo spazio per l'altro grande evento del settore videoludico, che si è quasi sovrapposto alla presentazione di PS5 per cause di forza maggiore (e una buona dose di inettitudine da parte di Sony): l'uscita di The Last Of Us Part II.
Una settimana fa sono state pubblicate le recensioni, e a partire da questo momento i giocatori stanno stringendo i loro joypad con le manine sudate, contratte nel parossismo dell'angoscia, ai comandi del Gioco Definitivo.
L'aura mistica attorno a questo titolo ha trasceso il solito copione che è lecito aspettarsi per ogni grande uscita videoludica: TLOU2 è stato preceduto da funesti segni di sventura, tra fughe di notizie sulla trama del gioco e le relative polemiche, tra reportage giornalistici sulle condizioni di sfruttamento immorali a cui sono stati sottoposti i dipendenti, tra una pandemia che sembra una campagna virale orchestrata dal reparto PR di Sony per promuovere questo titolo post-apocalittico, e sommosse popolari in USA che per un istante hanno minacciato di soffocare persino gli strilli di una campagna promozionale multimilionaria.
Ma l'essere umano è un esserino resiliente. E anche i giochi per PS4, a quanto pare: TLOU2 ha attraversato tutte queste peripezie per giungere infine tra le nostre manine pacioccose, da anni ormai aperte ad attenderlo. È giunto a noi inalterato nella sua, ehm, visione artistica... e non è un bello spettacolo.
Le recensioni italiane acclamano questo gioco come il Migliore della sua generazione, un giudizio opportuno dato che la sua generazione finisce questo natale.
Da tutta la penisola dunque si leva un coro unanime di elogi, che ci rappresenta TLOU2 come il gioco che raggiunge in ogni suo singolo aspetto l'eccellenza assoluta del videogioco nel 2020. E questo mi rende nostalgico, se penso che un tempo questo primato apparteneva ai Final Fantasy... ma insomma a quanto pare siamo al cospetto, oggi, dei giochi del futuro: tale è la forza di questo titolo, sia pure incatenato alle limitazioni tecniche di un hardware ormai vetusto.
La Nuova Generazione che sta sbocciando dovrà necessariamente partire da qui, e non sarà un compito facile perché l'eccellenza di questo titolo è stata conquistata al prezzo di tanto talento e tanti sforzi: un talento raro e sforzi rari, non solo nel 2020 ma probabilmente ancora per un po'. C'è il rischio concreto che la Nuova Generazione anzi esordisca con un passo indietro, e che impieghi anni per raggiungere questo gioco pionieristico.
Ma... ma a me non piace! Sono fatto tutto sbagliato, mamma?
Dicevo tempo fa che questo gioco mi respinge con la sua violenza disgustosa. Erano solo sensazioni, naturalmente, ma questa settimana hanno trovato conferma nelle recensioni di Kotaku, o di Polygon, o di altre testate internazionali.
The Last Of Us 2 è davvero un gioco fatto di lamenti strazianti, visioni da incubo e atti osceni che ti riempiono occhi e orecchie e testa e cuore per giorni dopo averlo chiuso.
Un tormento sordo e costante, costellato da sprazzi di angoscia insostenibile. È tutto questo, e non sarebbe un grosso problema se non fosse soltanto questo, sempre questo, dall'inizio alla fine.
A cosa serve questa pornografia del trauma? Questo gioco non fa domande, ma soltanto ti urla nelle orecchie la sua versione della storia.
Cosa mi vuoi mostrare, TLOU2? Che bruciare i cani è una cosa brutta? Che sgozzare le persone andrebbe tendenzialmente evitato? Eppure queste cose me le fai fare per 30 ore, senza darmi alcuna voce in capitolo.
“Sentiti in colpa!” sembrano suggerirci gli autori, “Sentiti in colpa perché stai facendo cose orribili”. Ma Ellie non sono io. E allora perché questo gioco disgraziato sembra pensarlo?
Paradossalmente, questo gioco invece di farci “riflettere sul ciclo infinito della violenza e sulle conseguenze dell'egoismo e della vendetta“, come dichiarano i suoi autori, ci ruba proprio la possibilità di influire su quelle conseguenze.
Tanto valeva allora farci vedere un film.
E questi sarebbero i maestri del game design? Hideo Kojima ce lo diceva venticinque anni fa, che è più facile fare una strage piuttosto che attraversare un campo di battaglia senza ferire nessuno. Ma già venticinque anni il Maestro lasciava a noi la scelta, e le conseguenze: questa è la prerogativa del gioco interattivo. Questo gioco arriva venticinque anni in ritardo, e in più, nel caso il suo pubblico fosse un po' ottuso, gli forza la mano qualsiasi cosa tenti di fare.
Death Stranding mi pare mille volte più coraggioso e più significativo, con il suo discorso sulle mani aperte e chiuse a pugno. Anche Zelda: Breath Of The Wild ci dà lezioni di vita senza mettersi in cattedra con arroganza: i Lynel sono i boss più forti del gioco, ma se metti via armi e armatura e ti presenti nudo come un verme, loro ti lasciano passare indisturbato. Arrivare a scoprirlo per caso, dopo essere morto cento volte sfidandoli in combattimento, è un'epifania più emozionante di queste 30 ore di sevizie brutali.
Non posso sorvolare su questa enorme falla nella costruzione del gioco. Ed è un gran peccato, perché The Last Of Us 2 è davvero l'ultimo della sua generazione, e il più grande di tutti.
La fusione tra gioco e storia, tra esercizio per le dita ed emozioni, è perfetta come è accaduto rare volte, e le ricordiamo tutte come capolavori storici: Half-Life, Metal Gear Solid, i primi Final Fantasy.
Anche la padronanza del ritmo di gioco è perfetta al punto da non riuscire più a distinguere i momenti predeterminati da quelli che emergono spontaneamente dalle interazioni con il mondo di gioco.
Questo titolo si è messo in testa di eccellere in tutto, fin nei minimi particolari. Dalla grafica al sonoro, dai controlli ai menu. Ci sono oltre sessanta opzioni soltanto per regolare la difficoltà. Anzi, il concetto stesso di “difficoltà” viene trasceso e allargato in un concetto più ampio di “accessibilità”, per permettere davvero a chiunque di giocarlo senza frustrazioni (è possibile completare il gioco lasciandosi guidare esclusivamente dall'audio, anche in italiano).
Questo denota amore, e lo rispetto. Come rispetto la determinazione di ripensare e migliorare il videogioco fin dalle sue stesse fondamenta: la tecnologia del motion matching, che fonde centinaia di animazioni in maniera fluida, non è soltanto una gioia per gli occhi ma si sente nelle dita... è qualcosa che cambia la maniera stessa in cui controlliamo il personaggio di un videogioco. È un'esperienza che da sola riesce a trascinare il mezzo videoludico nel suo futuro.
E poi come faccio a non rispettare un Giocone Gigantesco che, nell'anno 2020, tanto per cambiare non è un open-world? Questo aspetto, forse più di ogni altro, mi fa tirare un sospiro di sollievo, e mi dona speranza per il futuro del divertimento elettronico.
Un altro modo di giocare è possibile. Un modo più sofisticato, che si ottiene al prezzo di sacrifici umani ed economici che non saranno la norma ancora per molti anni. Ma almeno abbiamo visto che è possibile.
E allora grazie, The Last Of Us Part II. Grazie, ma no. Aspetto il prossimo.
Hotline
Tanti eventi incredibili sono accaduti durante questo periodo, per esempio Cymon ha finito un videogioco (en passant, la strip di oggi, come spesso accade, è una storia vera).
Ho comprato (in offerta) Hotline Miami non so perché, forse perché mi piaceva il senso di minimal che traspare dalle immagini, forse perché è un gioco che tiene abbastanza alta l'asticella dell'attenzione del giocatore sempre, forse perché ha quelle caratteristiche di puro gameplay che ormai sono per me necessarie per approcciare un titolo senza morire nella prima ora di "ambientazione".
Nonostante sia un gioco del 2012 ne parleremo come se fosse una cosa nuova. Hotline Miami si può considerare uno shoot'em up con visione dall'alto. La cosa buffa di questi giochi indie è che per parlarne si fanno paragoni con videogiochi che appartengono a epoche lontanissime da questa e che quindi voi non capirete. Per (non) intenderci l'impianto ricorda un po' Alien Breed, dei Team17 (1991) che a sua volta era figlio di altri titoli precedenti con lo stesso schema, che però si perdono proprio nelle nebbie del tempo.
Alien Breed, ai tempi, era uno sparatutto ignorante del genere più basic che potete pensare, nel senso che mandava contro il giocatore ondate di nemici e glieli faceva massacrare in autofire. Hotline Miami non ha niente di tutto questo invece, perché lo scopro è si massacrare di brutto i tuoi nemici, ma non hai mai abbastanza proiettili per farlo né puoi permetterti che loro ti si gettino addosso a ondate.
La parola sbagliata per definire Hotline Miami è che è "punitivo". Se vieni colpito da una qualsiasi arma dei tuoi nemici muori e ricominci lo stage da capo. Di contro, tu inizi il livello avendo a disposizione i tuoi pugni, che manco uccidono (nella maggior parte dei casi) e quando trovi delle armi raramente hanno abbastanza proiettili per permetterti di sprecarli. Una delle linee seguite dall'indie in questi anni è partire da una situazione estremizzata rispetto allo schema standard a cui ci si ispira e poi da lì risolvere i problemi fino a produrre qualcosa di nuovo.
Torniamo quindi al termine punitivo. E' evidente che Hotline Miami non lascia moltissimi margini d'errore, ma parlare di gioco punitivo è sbagliato. Perché gli autori sono consapevoli che il giocatore dovrà passare attraverso decine di trial&error per ottenere risultati e quindi il gioco favorisce questa condizione. Gli stage sono in realtà molto brevi, il savegame è tra una missione e l'altra, ma ogni "piano" dell'edificio comporta un restart. Alla morte non si indugia in nessuna scena di dileggio, ma viene messo subito a disposizione il tasto R per poter ricominciare, tagliando fuori tutti i tempi morti. Se siete in un momento di isteria potete anche riuscite a ricominciare una decina di volte in un minuto, in alcuni passaggi, finché non capirete il giro, lo farete.
I giochi realmente "punitivi", invece, nella mia idea, sono quelli che alla morte minacciano di farti entrare in terribili ordalie prima di concederti una nuova possibilità, aumentando sì il thrilling mentre lotti per sopravvivere, ma anche aumentando la frustrazione sull'altra sponda. Questi giochi, oggi come oggi che la mia pazienza è ormai limitata quanto il mio tempo, sono per me quasi impossibili da portare a termine.
Se però mettiamo insieme tutti questi aspetti forse dobbiamo accettare che Hotline Miami non è veramente uno sparatutto, ma anche chiamarlo sparaqualcosa significa forse approcciarlo nel modo sbagliato. A suo modo mi piace parlarne come di un puzzle game, cioè di un gioco che ti mette davanti un enigma, formato da stanze, porte e gente armata, e ti chiede di trovare le mosse corrette per risolverlo. In realtà una certa dose di randomizzazione dei comportamenti impedisce di essere così rigorosi nell'analizzarlo come un vero puzzle presupporrebbe, ma spesso fermarsi un attimo e cercare di avere una visione d'insieme è l'unico modo per andare avanti, rispetto a uscire all'avventura cercando di portare a casa il risultato. Di certo poi noi vecchi siamo un po' ostacolati dal sistema di controllo, che prevede il movimento con il wasd e il puntamento tramite mouse, una roba che probabilmente ai ragazzini abituati alle levettine della play che vanno per conto loro è semplice da ottenere, ma che a me non è mai riuscita in agilità, pur avendo portato a termine il titolo.
Come gioco indie Hotline Miami si porta anche sulle spalle un carico non indifferente di atmosfera e stile. In particolare richiama l'atmosfera delle violente lotte tra bande criminali degli anni 90, calcando la mano sul granguignol e il gusto per il massacro. Ha una delle migliori colonne sonore mai sentite negli ultimi boh... sempreanni e il mix psichedelico che questa forma con i colori acidi, in tempi più ruggenti, avrebbe fatto pensare a più di un ben pensante che realmente gli autori vogliano trascinarti a compiere omicidi.
La sua trama, però, è tutt'altro che rigorosa. E' evidente abbastanza in fretta che il protagonista viaggia in una specie di bagno lisergico che non gli permette realmente di comprendere cosa sta accadendo, ma spiegazioni reali perché ciò accada non è che effettivamente ci siano, se non per un paio di mastermind che, verso il finale, saltano fuori per dare una chiusura alla storia. Visto la pesante atmosfera si sarebbe potuto elaborare di più o magari anche solo "trasmettere" meglio quelle che erano le idee sottese.
I videogiochi non si consigliano, voi siete videogiocatori più di me. Ho scritto questa recensione anche perché per me è un viaggio un po' meno astratto del solito in quello che rappresenta fare videogiochi oggi stando lontano dai triplaA (settimana prossima un'altra, di un titolo altrettanto significativo). Io sono convintissimo che tutto il fertile mondo odierno sappia dire qualcosa e abbia delle grandiose idee, però non posso non sentire la nostaglia per la "confezione" di questi prodotti, che manca sempre della rifinitura che ha un prodotto che deve andare "sugli scaffali" (come si diceva un tempo) o rappresentare un brand "professionale" invece usualmente ha. Questo ovviamente vuol dire tante cose quindi non posso definirvelo, forse in Hotline Miami manca appunto l'approfondimento narrativo di contorno e una vera escalation nel procedere dei livelli che renda il finale appagante, ma, come ho detto, sono concetti in generale troppo labili perché effettivamente possa definirli.
Cymon: testi, storia, site admin“Look at my face. We've met before...”