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serie
967, 16/05/2020 - Sempre
967
16 . 05 . 2020

Il prezzo della bellezza

Forse un po' già ci manca, eh, Gödel? La comodità e la sicurezza di quelle quattro mura, uno schermo come unica via di fuga... non è sempre stato così per te, in fondo?
Ma ora infine si ridesta in tutti noi il richiamo della vita, e ci spinge ad avventurarci fuori come sopravvissuti post-apocalittici, come Guerrieri della Luce ridestati da un lungo sonno, come astronauti ridestati dal sonno criogenico...

Dicevamo la volta scorsa che la Situazione ci rende evidente il prezzo della Bellezza, e puntualmente questa settimana abbiamo conosciuto una novella bellezza: la dimostrazione dell'Unreal Engine 5.
Cinque mesi di lavoro per 24 persone. Per disegnare una caverna. Oltre ovviamente alle centinaia di ricercatori esperti che hanno rasentato il baratro della follia per 10 anni, per consegnarci oggi la nuova versione dell'impianto tecnico che sosterrà i giochi del futuro. Bellissimo, e galvanizzante come le missioni nello spazio degli anni '60: se non serve a reclutare giovani di belle speranze, da incatenare a una scrivania a scrivere codice per il resto della vita, allora davvero non so cosa potrebbe farlo.
(Forse i giochini per cellulare miliardari.)
Eppure il nostro cuore sa che è tutto fasullo: non fosse altro che per i limiti delle forze umane. Appare evidente infatti che, quand'anche nella Nuova Generazione di console venissero meno come per magia tutti i limiti tecnici, resterebbero pur sempre i limiti umani ed economici.
È il prezzo della bellezza, la maledizione dell'Alta Definizione, che ha rischiato di mandare in bancarotta più di una storica casa di sviluppo, soprattutto quelle orientali che sono state colte di sprovvista dal progresso tecnologico.
È il costo umano delle settimane da 60 ore di lavoro che sono ormai la prassi in questa industria, e diventano 70 nelle fasi finali dello sviluppo. Ed è anche il costo artistico dell'aumentato divario tra chi può permettersi di produrre giochi grossi perché popolari, e chi non può perché ha idee nuove, che potrebbero diventare popolari oppure no.

A proposito: questa è stata la settimana di un altro video che chiedeva di essere ammirato. Ammiriamolo. È Ghost of Tsushima, la Grande Esclusiva Playstation che Sony sta usando come tappabuchi, dopo che tutti i suoi piani strategici sono stati scombinati.
Il Giappone feudale, credo, è un soggetto ben difficile da sbagliare. Occorre davvero una rara incompetenza per abbruttire i duelli in riva al mare tra samurai in armatura, e i ninja che corrono sui tetti al chiaro di luna, e le carpe variopinte negli stagni dei santuari all'ombra dei ciliegi in fiore. Eccetera. Ed infatti quei venti minuti di video sfoggiano tutto questo ed altro ancora, dalle foreste autunnali lungo le pendici nebbiose dei monti, ai campi d'erba alta agitati dal vento.
Il tutto fotografabile con il Filtro Kurosawa.
È tutto bellissimo, ma il prezzo di questa bellezza è una noia mortale. È tutto bellissimo, ma zero emozioni. È tutto bellissimo, ed infatti l'abbiamo già visto mille volte, come lo stesso panorama famoso inquadrato in mille cartoline. E non solo il panorama, ma tutto il gioco: la noia e il già visto soffocano il gioco intero senza lasciare scampo. Potevano chiamarlo Assassin's Creed: Quello in Giappone, e nessuno avrebbe notato la differenza.
Perfino i duelli a colpi di katana sono tutto meno che eccitanti: belli da vedere, ma vuoti dentro. “M-ma come fai a giudicare tutto il gioco da 20 minuti di video?” dirà il bifolco del popolo: ed è proprio questa la tristezza... che purtroppo si può giudicare tutto il gioco da quei 20 minuti, perché sono 20 minuti identici a qualsiasi altra cosa si sia mai vista in qualsiasi altro Giocazzo Popolare dell'ultimo decennio.

Speriamo che, negli anni a venire, qualcosa riesca a sfuggire da questo regime totalitario. Qualcosa di spiazzante come è stato Death Stranding. Speriamo di non dover scegliere tra bellezza e sentimento.

Lo-Rez: arte, storia, web design
16 . 05 . 2020

Come Yul Brynner

E poi Lo-Rez ti ricorda che avevi due cosine da dire su Westworld

Il mio rapporto con la serie di Westworld è stato strano fin da subito. Ho visto il pilot quando è uscito, impossibile esimermi, e mi ha fatto un effetto tale che ho deciso, caso unico, di non proseguire con la visione. Non mi colpirono le ambientazioni, soprattutto della mesa, un po' troppo buttate lì per rappresentare l'officina del parco giochi, ma soprattutto mi infastidì la palese JJabramassata su cui era stato costruito il primo episodio, la consueta strizzatona d'occhio da finto nerd che fa finta di fare l'amicone quando non sta capendo niente. Tutto il pilot gira intorno al fatto di farti credere che Teddy sia l'ospite e l'uomo in nero il residente, questo cercando di rievocare il film originale del 1973, sia mediante alcune scene sia con il charadesign di Ed Harris, che ricorda molto quello dell'androide killer interpretato ai tempi da Yul Brynner. Ovviamente è un giochino che si esaurisce nell'episodio, le vere macchine narrative no si sono ancora messe realmente in moto, a quel punto, ma mi indispettì.

Lasciata correre senza troppi problemi anche la seconda stagione, quando hanno cominciato a vedersi i promo della terza ho cominciato ad avere il sospetto che forse, sotto l'intero impianto di Westworld, ci fosse vivadio della vera fantascienza, una di quelle cose che non è mica facile trovare al giorno d'oggi. Complice il clima che imponeva di stare molto a casa e la necessità di guardare qualcosa che distraesse un po' bingiai (cosa per me altrettanto inaudita) le prime due stagioni fino ad arrivare al pari per vedere la terza con il resto della popolazione mondiale.

La prima stagione di Westworld è un lungo sogno febbrile. I continui restart delle scene rendono la fruizione sciropposa, il meccanismo narrativo mal si adatta a una serie TV che ha nel suo andare avanti uno dei suoi principi più importanti. L'interlacciamento dei momenti temporali è comunque pretenzioso, si vede che Nolan l'ha messo lì perché voleva che tutti gli dessimo del gegno (col gn). Il crescendo verso il massacro finale e soprattutto il cervellotico piano di Ford (seppellisci la chiesa, disseppellisci la chiesa...) appaiono quantomeno confusi. Westworld, impossibile dirne altrimenti, è faticosa.
Nonostante ciò, però sì, effettivamente c'è quel respiro di vera fantascienza, di grandi questioni, di ragionamenti profondi che cercavo, non si può negare nemmeno ciò. L'idea dell'intelligenza artificiale che nasce e cresce nel parco e che quindi, prendendo coscienza, finisce per viverlo come un inferno eterno è molto bella. Anche la disgregazione della memoria di Dolores, che porta al particolare svilupparsi della vicenda di Will è comunque un esperimento che dona, a tratti, delle emozioni. Insomma, dobbiamo dare atto a Nolan di aver preso la solita trappola per uccidere di Chricton (il meccanismo è lo stesso di Jurassic Park, non neghiamolo) e aver dato alla follia dei robot diversi strati di interessanti spunti di riflessione.

La seconda stagione, da una parte, si è presa la briga di farsi carico della storia che la prima non aveva sviluppato, ovvero la ribellione dei robot. Il tentativo di fare di Dolores un personaggio a tutto tondo è solo parzialmente riuscito perché alla fine la sua storia è una commistione di ricordi finti di una realtà inesistente, genuino desiderio di libertà e crudeltà gratuita esplicitamente proveniente da una storia che ha contaminato la sua. I momenti di noia o di calo di ritmo si fanno ancora più ampi. Ne vale però ancora la pena perché forse qui il dibattito filosofico si fa alto e supera quelli che sono semplicemente topos della fantascienza. L'idea che l'uomo, alla fine, possa essere ridotto a un algoritmo e che quindi le macchine possano rivendicare vita non tanto perché riescono a raggiungere un livello di coscienza superiore, ma perché scoprono che il livello di coscienza della gente è inferiore a quello che la gente stessa crede. I tanti tentativi di immortalità o diversa vita che si vedono. L'officina, completamente virtuale, di ridefinizione delle persone e dei comportamenti. Tutte queste cose, tenute al centro della vicenda, da una parte depotenziano la narrazione buttandole addosso tutti i difetti di cui sopra, dall'altra, invece hanno il gusto genuino nella riflessione intelligente (perché ok, se la tirerà anche, ma Nolan un poco gegno bisogna riconoscere che è sul serio).

Trasversalmente queste due stagioni poi, non crediate me ne dimentichi, tonnellate di poetic cinema, estetica a mille, grande realizzazione tecnica. La mesa non mi è mai andata giù, ma le raffinatezze della costruzione dei residenti e la costruzione di molte scene sono indubbiamente di un livello che le serie TV raramente raggiungono. Il lavoro di Ramin Djawai è, per l'ennesima volta, maestoso, in questo caso anche impreziosito da alcune perle giocose come l'arcinota cover di Paint it black.

Dato tutto questo per acquisto PERO' c'é stata anche una terza stagione.

Quando si spinge sulla storia e sulla realizzazione dei personaggi nella maniera in cui Westworld ha spinto sul suo impianto è abbastanza fisilogico che in pochi archi narrativi si esaurisce quello che effettivamente è possibile dire. Westworld nasce dall'idea del mondo irreale popolato da robot e, secondo ragioni narrative abbastanza base, non può uscirne. Non può uscirne perché altrimenti va a vedere dissolversi la sua identità e soprattutto deve confrontarsi con tutto un set di questioni che non ha tempo e modo di vendere al suo pubblico.

Nolan, in evidente ansia per apparire gegno la terza volta, prende il percorso preziosamente sviluppato e ne butta via la maggior parte. Introduce nuovi, interessanti principi fantascientifici che però, piombando su qualcosa già in moto, sono in realtà degli oggetti ingombranti e difficili da gestire. Nolan cerca di dipingerci questa distopia a bassa intensità di un mondo controllato dagli algoritmi e intanto vi getta dentro i suoi personaggi come fossero dozzinali pupazzetti, terminator, robottini impazziti. Il possente Rehoboam è una palla alla reception della megacorporazione a cui si può accedere praticamente dal chiosco pubblicitario. Da lì, in pochi clic, si scatena una rivolzuione di cui però nessuno si preoccupa. Cadono i raffinati confini tra realtà e irrealtà cosicché chiunque può essere qualsiasi cosa, consapevolmente o inconsapevolmente e, di contro, tutti hanno degli scopi erratici. I personaggi principali della serie smettono di avere centralità e si consumano in storyline incompiute o frettolose. Anche se l'estetica fantascientifica ha avuto un leggero sviluppo (anche in termini di budget) non è che sentissimo realmente il bisogno di questo mondo futuro, di queste macchine che si guidano da sole, di questi grossi robot e di rivoluzioni dal basso. Niente di questo sembra utile a dare la conclusione alla storia che noi stavamo seguendo.

In conclusione, vista in blocco, Westworld è stata un esperimento interessante, utile alla televisione moderna molto più di tante altre opere che vengono portate in trionfo. Ha fatto scelte coraggiose e le ha pagate tutte. Quando c'era però bisogno di mettere più artigianato che estro per arrivare al corretto finale, però, si è deciso di, parlando in gergo, pisciare fuori dal vaso, oltretutto senza troppa preoccupazione per chi dovrà pulire dopo. In questo senso si può solo dire che ha chiuso in maniera deludente.

“ I read a theory once that the human intellect was like peacock feathers. Just an extravagant display intended to attract a mate. All of art, literature, Beethoven, Mozart, William Shakespeare, Michelangelo, and the Empire State Building... Just an elaborate mating ritual. Maybe it doesn't matter that we have accomplished so much for the basest of reasons. But, of course, the peacock can barely fly. It lives in the dirt, pecking insects out of the muck, consoling itself with its great beauty. I have come to think of so much of consciousness as a burden, a weight, and we have spared them that. Anxiety, self-loathing, guilt. The hosts are the ones who are free. Free here under my control”

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