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“Cattivi con i buoni, buoni coi cattivi” dicono che sia la strategia per avvicinare le parti in una trattativa: in questa strip non so Gödel da che parte si colloca, ma certamente non gli manca il coraggio di mettere in atto rimedi drastici per i conflitti che scoppiano inevitabili in ogni comunità.
Gödel, insegnaci la politica internazionale! (in salopette da draghetto)
Noialtri invece siamo ancora qui, sperduti nel mezzo della traversata di un inverno buio e senza nome. Verranno certi giorni sul calendario e gli daremo il nome di Carnevale, poi arriverà la Pasqua e con essa la fine dell'inverno... ma non oggi: oggi siamo sprofondati in un buio senza lucine, forse non freddo come ci ricordavamo gli anni scorsi, ma altrettanto pieno di germi che attaccano le vie respiratorie.
Le nostre difese, sia immunitarie che emotive, sono pericolosamente basse.
Facile dunque cadere vittima di certi videogiochini schifosamente manipolatori. Abbiamo già citato titoli come A Space for the Unbound e Until Then, simulatori di vita che si giocano con un tasto per mandare avanti i dialoghi e nulla più, tutti concentrati sul coinvolgere emotivamente il giocatore.
Oggi, nel mezzo dell'inverno senza volto di Febbraio, voglio citarne un altro. Un'intera serie: To The Moon, Finding Paradise, Impostor Factory e il nuovo Just A To The Moon Series Beach Episode. A seguire arriverà l'ultimo episodio, che però sarà apparentemente slegato dagli altri, The Last Hour of an Epic TO THE MOON RPG.
Son giochi che mi fanno tenerezza perché sembrano fatti con RPG Maker, il software demoniaco che anche noialtri usammo molte ere fa per creare il nostro The Long Ear RPG.
Ma attenzione: la povertà di mezzi è romantica fino a un certo punto. Anzi, mi irrita particolarmente vedere lo stesso schifo di direzione artistica e realizzazione tecnica nonostante i 13 anni trascorsi tra il primo e l'ultimo titolo, e il loro enorme successo anche economico.
A parte questo però, ho solo belle parole da spendere.
Ciascun episodio dura un pomeriggio. La premessa è che i protagonisti lavorano per un'azienda che ha costruito una macchina per entrare nella mente delle persone e riscrivere i loro ricordi; l'utilizzo principale è per cancellare i rimpianti dei clienti in punto di morte.
Ogni episodio quindi ci fa rivivere i ricordi di una vita, e già questo sarebbe abbastanza tragico, ma in più si aggiungono ben presto retroscena misteriosi sui nostri protagonisti stessi, dubbi sulla natura della nostra Realtà, il sospetto di vivere sogni dentro sogni dentro sogni...
Li ho chiamati giochini manipolatori, ma in realtà la narrazione è estremamente asciutta e il tono è autoironico, per cui l'emotività non risulta mai melensa o forzata. I primi due titoli sono basati sulla stessa struttura di crescendo sentimentale con esplosione finale all'ultima frasetta, una frasetta che apre infine le fontane del pianto a stento trattenuto fino ad allora. Chi non versa almeno una calda lacrimuccia è meno che umano.
Gli ultimi due anche, ma in più si fa sempre più preponderante la vicenda dei protagonisti, due giovani che sparano in continuazione battute per sdrammatizzare e tra cui c'è un'ovvia tensione romantica. Interessante come il gioco eviti la scontatissima deriva sull'Azienda Malvagia che nasconde Scopi Sinistri: questi tizi sono l'azienda per cui lavorano, hanno un'incompetenza e una svogliatezza molto rassicuranti, e certamente nascondono tanti segreti ma nient'affatto sinistri, e di natura del tutto intima e dolorosamente personale.
Arrivati alla fine, all'ultima scena dell'ultimo episodio, abbiamo gli elementi per ricostruire un quadro abbastanza chiaro della situazione, a ritroso fino al primo episodio... perlomeno se abbiamo avuto la fortuna di giocarli tutti di seguito adesso, perché se siete come me col cavolo che vi ricordereste i particolari del primo titolo uscito TREDICI ANNI FA.
Il momento giusto per la serie di To The Moon quindi è qui e ora: nel cuore del grigio inverno, quando siamo emotivamente fragili e abbiamo a disposizione tutti e quattro i giochi fatti e finiti, e possibilmente una bevanda calda.
Premere l'ultimo tasto non sarà facilissimo.
Lo-Rez: arte, storia, web designLe forme del dialogo
Solo gli ingegneri più potenti riescono a maneggiare correttamente il calendario, un'arma sacra capace di miracoli come anche di grandissima distruzione, la differenza, a volte, tra la vita e la morte. Sarebbe bello poter mettere nel passato le riunioni che non vogliamo fare e poi comportarci come se le avessimo fatte e intanto segnare nel futuro le cose importanti, quelle che effettivamente dovremmo fare se non fosse che continuamo a farne delle altre. Il calendario è come la magia del tempo di FF Tactics, potentissima, ma bisogna essere capaci.
Come sapete mi piace riflettere sulla comunicazione.
Mettiamo che entrate in un bar, vi mettete in mezzo a tutti, puntate un dito e dite "Quel tizio è un imbecille".
Ora mettiamo che siete allo stesso bar, ma seduti a un tavolo con un vostro amico e a lui, solo a lui, dite "Quel tizio è un imbecille".
Nel primo caso, a prescindere dal giudizio che tizio si merita, verrete considerato un barbaro cafone, una persona che ha fatto qualcosa di sbagliato, una persona nel torto.
Nel secondo caso, invece, il vostro amico valuterà il vostro pensiero, magari lo troverà persino valido oppure controbatterà, in ogni caso quello che avete detto sarà uno spunto di discussione.
Molti molti anni fa i giudizi che sentivamo espressi su tutto (sui film, sui videogiochi, sulla vita) venivano da un media centralizzato che poteva essere la TV, la carta stampata, la radio e calava su di noi. Anche se si trattava di media pubblici (di massa) in realtà ci trovavamo davanti alla seconda situazione. Il dialogo, unidirezionale, era rivolto solo a noi nel momento in cui lo recepivamo. Non solo, noi ci sentivamo in dovere di individuare il contesto e il vocabolario usato da chi esprimeva il giudizio, per essere sicuri di non fraintenderlo e sempre noi ci costruivamo, su un particolare canale di comunicazione, per esempio una rivista, uno storico dei giudizi che venivano espressi. Come davanti a un amico sapevamo più o meno quello che era il suo pensiero su altre cose affini a quelle di cui stavamo parlando, sapevamo se il termine "imbecille" per lui era più aspro che "idiota", accettavamo la sua opinione. In generale eravamo propensi a considerarla uno spunto di discussione. La conclusione era che quando un commentatore diceva "questa tal cosa mi fa schifo" anche se tutti gli altri la pensavano diversamente potevamo provare a cogliere il suo punto, era anzi probabilmente lo spunto più stimolante su cui lavorare.
Oggi abbiamo l'internet. Anche quando il pensiero è espresso da qualcuno di importante in realtà viene calato in uno sciame di interazioni multidirezionali che lo mettono sullo stesso livello di tutti gli altri. Noi percepiamo questa cosa come urlare nel bar. Il pensiero sembra un'espressione feroce, un attacco pubblico per screditare l'oggetto della discussione e rapidamente spersonalizziamo le parole, ignorando e cancellando il percorso che ha portato a pronunciarle così da renderle il più possible fraintendibili e polarizzate. Abbiamo anche la possibilità di reagire e nel reagire costruiamo su quelle parole dei castelli che ne evidenziano le vulnerabilità che hanno solo se, appositamente, non ci impegnamo a comprenderle.
Di fronte a ciò un commento negativo non può essere altro che motivo di rissa, insulti e zuffe. Ci sarà chi sarà di contro dell'imbecille a chi ha parlato, ci saranno moralizzatori che saranno convinti di dover dire che non si può dare dell'imbecille a nulla, ci saranno altri che gli si accoderanno per i motivi sbagliati.
La discussione, nel senso del dibattito costruttivo, in questo contesto muore sul nascere.
Quando l'internet era antico credevamo che la possibilità di portare tutta la discussione sullo stesso piano e poter interagire in ogni direzione fossero una benedizione e un antidoto a una specie di oscuro "fascimo intellettuale" da cui eravamo tutti convinti di essere oppressi, ovvero l'idea che qualcuno irradiasse un pensiero unico che noi potevamo solo subire. Banalizzando, a tutti piaceva Tomb Raider, negli anni novanta, tutta la stampa specializzata diceva che era bellissimo. Era legittimo che, tra i lettori, ci fossero dei detrattori di Tomb Raider, ma questi non potevano ribattere se non molto timidamente. E' fisiologico che credessero che un qualche complotto li aveva emarginati e che la frustrazione gli facesse desiderare una qualche rivoluzione.
La rivoluzione, però, è risultata in una tragica perdita di punti di riferimento per cui oggi non sappiamo più se ci piace o non ci piace Tomb Raider. Ci sono quelli che dicono che è bello perché sono pagati per farlo, quelli che dicono che è bello perché credono che i primi siano in buona fede, quelli che dicono che è bello perché gli pare che sia più cool dire che è bello. Poi ci sono quelli che dicono che è brutto e anche questi sono di tutti le categorie degli altri, solo al contrario. Quelli che effettivamente esprimono un giudizio costruttivo, in un senso e nell'altro, oggi possono esprimerlo, ma lo vedono disgregarsi nel rumore di fondo di una massa che non interessata.
E' un diverso tipo di fascismo intellettuale, magmatico, informe, in gran parte eterodiretto come una qualsiasi campagna pubblicitaria. A conti fatti questo nuovo ingombrante essere rende tutti gli strumenti che oggi avete a disposizione per comunicare perfettamente inutili e, intanto, cerca di entrarvi nella testa attraverso quelle stesse pareti di comunicazione porosa con cui vi convince di trovarvi sul suo stesso piano. Subdolamente.
Editoriale chiuso, un grande editoriale da pensierino della susy. Ovviamente FTR non rientra nei due casi di cui sopra, FTR è un bar sì, ma vuoto, in cui i due baristi si gridano commenti da un lato all'altro del bancone mentre puliscono bicchieri che non vengono mai usati. Se però riuscite a trovare l'ingresso, ricordatevi, potete sempre trovare da bere.
Cymon: testi, storia, site admin“Ma finalmente io muoio, e per non avere nessuna speranza di felicità, né nella morte, né nella vita, voglio ostinarmi nella mia illusione. Dirò dunque che si ha sempre ragione d'amare, e che l'anima più libera è l'anima più schiava dell'antica tirannia dell'amore.”