Il mondo post-Final Fantasy
Così si conclude la mini, anzi la nano-serie iniziata appena appena settimana scorsa. Plot twist! Dopo sedici anni di persecuzioni e scherzi beffardi, abbiamo finalmente trovato un personaggio che va a genio alla terribile vocina disincarnata del Supporto Tecnico: si tratta dello Stagista Vietnamita.
Possibile che con quella cuffietta con le orecchie, quella frangetta un po' così, quello stile da fighetto di Shenzen, il nostro giovane neo-arrivato abbia fatto breccia nel cuore di pietra del dispettoso Supporto Tecnico? Sembra proprio di sì.
Ci sono molte notizie videoludiche ferme in coda, per via della parentesi che ha occupato le ultime due settimane, dedicata all'Olocausto Nucleare che ci spazzerà via tutti.
Ma mi sembrava doveroso.
Ci sarebbe ad esempio un giochetto come Hellblade: Senua's Sacrifice. Non avrei mai creduto di parlarne qui: eppure questo titolo che pareva soltanto un giochino d'azione medievale generico come tanti si è rivelato una sorpresa. La protagonista, infatti: a) Non è la figa ideale b) Soffre di disturbi mentali.
A detta degli esperti, questi ultimi sono resi nel gioco con vari effetti piuttosto verosimili e scientificamente accurati. Non l'avrei mai creduto possibile, eppure il 2017 videoludico ci ha dato anche questo. Bravo, sono orgoglioso di te.
E poi, naturalmente, c'è Final Fantasy. Scusa se ti ho fatto aspettare, tesoro.
Dell'annuncio di FF XV per PC ho già parlato, ma ammetto di essere molto più eccitato per la Pocket Edition piuttosto che per la Windows Edition. Ma guardateli, quei personaggini super-deformed! Non sono adorabili? E poi la mappa isometrica, i combattimenti a pseudo-turni... è proprio tutto come una volta!
Sì, la Pocket Edition è quella che fa per me, e per tutti noi che ricordiamo con affetto gli RPG giapponesi dell'età dell'Oro, e serbiamo nel cuore una passione inspiegabile e irrazionale per quella grafica primitiva, quel gameplay arcaico, quelle musiche... oh cieli, quelle musiche!
Viviamo in un mondo post-Final Fantasy. Non sappiamo cosa ci riservi il futuro, ma intanto il Final Fantasy del passato si è sparso come una polverina fatata su tutti i giochi e tutti i dispositivi: non possiamo che esultare.
Lo-Rez: arte, storia, web designSpoiler alert alert
Siamo giunti con questo editoriale alla conclusione della cavalcata riguardante Twin Peaks. Oggi facciamo un discorso più astratto, molto nelle mie corde, che è sorto quasi spontaneo grazie a diversi eventi contigenti che sono accaduti durante la visione dell'opera di Lynch. In particolare è bene notare che mentre l'epopea del detective Cooper arrivava a conclusione HBO sgranava gli episodi della settima stagione di Game of Thrones attirando l'attenzione di praticamente tutto il fandom. Non c'è niente di più distante da Twin Peaks di Game of Thrones direte voi, e avete perfettamente ragione, ma proprio questa distanza ci permette di fare alcune interessanti riflessioni.
E' stato abbastanza evidente e a tutti che in questa stagione di GoT, forse per la prima volta, l'anima "letteraria" della saga è completamente venuta a mancare. Il progetto, per costruzione, è diventato fortemente supino alle logiche della serie TV: gran ritmo, personaggi che arrivano a confronti intensi, personalità chiare e nette, tratteggiate con linee molto più decise. Possiamo credere che fino alla stagione precedente esistesse un manoscritto di partenza su cui disegnare gli episodi (non pubblicato, ovviamente). Questa volta invece facciamo fatica a vederlo. Questo ha fatto sì che Game of Thrones mostrasse la sua più profonda e genuina natura e quello che ho visto... beh, non mi è piaciuto realmente.
La cartina tornasole del modo in cui GoT ha tenuto le folle legate a sé è l'ansia diffusa per lo spoiler che ha preso praticamente tutto il pubblico. Ogni settimana sembrava che la cosa più importante fosse non avere informazioni su cosa sarebbe accaduto, che sostanzialmente la sorpresa fosse il reale elemento centrale del racconto. E' giusto così? E' divertente così, ma non è giusto, da un punto narrativo. E vado a spiegarvi perché.
La dinamica di Game of Thrones è abbastanza semplice: poni i personaggi in una situazione e poi, dopo un certo periodo, fai succedere qualcosa di clamoroso. Di solito, la cosa che viene meglio è la morte di un personaggio, ma può essere qualcos'altro, qualcosa di cui la gente possa parlare o che faccia sgranare gli occhi. In un progetto narrativo, diciamo reale la cosa clamorosa, qualunque sia, dovrebbe essere il culmine di una costruzione complessa e dovrebbe, all'interno di ciò che si sta esponendo, avere un fine. Questo solitamente fa sì che questi punti nevralgici non possano che essere rari, perché vanno appunto edificati con ampia progettazione che pervade l'intera storia. Quando nel Signore degli Anelli muore Boromir, non ci troviamo semplicemente di fronte all'annientamento di un regular nel season finale. Possiamo trovare in tutta la parabola di Boromir un'evoluzione strettamente legata alla debolezza della razza umana, ai sentimenti di paura che lui nutre nei confronti del futuro del suo popolo, una parabola che poi ha il culmine nel momento in cui cerca di rubare l'anello e poi nella sua morte che è tutto in una volta resa, redenzione e anche punto di cesura per il concetto di Compagnia che, sponsorizzato anche qui e pompato lungo tutta la trama, va in frantumi.
Se andate a studiare il libro, la morte di Boromir arriva come conclusione di un teorema molto vasto che inizia a Gran Burrone centinaia di pagine prima e continua a vivere pulsando vivo sotto l'intera vicenda.
(ci sono parabole del genere anche in Game of Thrones versione romanzo, non dico di no, ma ho voluto staccarmici per chiarezza)
Nella settima stagione di GoT tutto questo non c'é. Certo, potreste venirmi a dire che la parabola di molti personaggi è stata costruita nelle sei stagioni precedenti, ma sarebbe un inganno, perché tutti i personaggi in realtà hanno oscillato avanti e indietro per diverse posizioni lungo tutta la via e non è possibile vedere un inizio, uno sviluppo e una fine per la maggior parte di essi. Al di là della gestione becera di tutti i personaggi di Dorne, prendiamo Ditocorto che, sostanzialmente è la mente dietro la maggior parte dei punti nodali della storia. Sostanzialmente, considerando che mette il dito (corto) in tutti gli avvenimenti cruciali (morte di sovrani e cambi di campo) la sensazione che si ha è che abbia un piano imponente e ampio da vero mastermind. La sua conclusione, però, non é la demolizione del suo complicato congegno strategico, ma solo il ribaltamento dell'ultima attività intrapresa. Smascherato in quello il suo poderoso pregresso crolla in nulla.
No, non potete tirare fuori il fatto che la poetica di Game of Thrones è che le nostre azioni sono futili perché tanto prima o poi troviamo qualcuno che ci taglia la gola. Non parliamo di racconto, parliamo della sua economia.
Quindi funziona così: gli autori nella puntata sette devono portare un certo numero di forti emozioni e, unicamente a questo scopo, uccidono Ditocorto. Avreste potuto vedere questo fatto arrivare come no dalla narrazione precedente, semplicemente accade e nel momento in cui accade vi dona quell'emozione, quello sprazzo di adrenalina condivisa che vi fa amare Game of Thrones. L'intera settima stagione, piena di eventi clamorosi (e scene ad alto budget, ok) è un perenne lancio di dadi allo scopo di generare l'inatteso.
Come siamo arrivati a questo punto? Semplice, il concetto di evento è più facile da fruire e da assimilare dell'impianto, non può deludere nessuno, permette di incassare rapidamente successo. A nessuno interessa se nessuno riguarderà GoT tra dieci anni perché "tanto ormai se lo sarà già spoilerato tutto", per allora starete tutti rincorrendo gli spin-off. Quello che conta è che voi godiate Game of Thrones adesso, anche per un momento brevissimo, un momento che vale una condivisione sui social o sono un like, ma ora e, mi raccomando, tutti insieme (delle bingiabili parliamo un'altra volta). E' un notevole shift rispetto ai Lost che ti pongono un dubbio la cui soluzione è rimandata, in cui l'attesa dello shock è più importante dello shock stesso. In quel caso lo shock finiva con l'essere qualcosa di ingestibile e, soprattutto, esplodeva molto meno intenso in un punto che si concentrava in coda alla visione. Durante tutto l'arco ci si poteva divertire (lo si fece) con le teorie su cosa sarebbe accaduto, ma quello è un passatempo da nerd avvelenati, è molto meno nazional-popolare. Game of Thrones è viscerale e vicina al popolo come una partita di calcio con tanti gol.
Ah, incidentalmente questo è lo stesso motore delle soap opera.
Il parallelismo con Twin Peaks regge, quindi. Perché invece Twin Peaks è stato tutto il contrario, un mosaico che andava a mostrarsi piano piano, ma condannato a rimanere incompleto. Il suo successo è stato molto più ridotto (anche se i confronti con la visione di 23 anni fa sono ridicoli e vi prego di non prenderli mai in considerazione) perché non era possibile vederci dentro una sequela di colpi violenti. Eppure non è stato realmente un Lost, è stato qualcosa di più, perché i suoi confini sono rimasti, fino all'ultimo volutamente sfumati eppure, in ogni episodio, ha saputo donare delle scene autonome e potenti abbastanza perché chi vi si è appasionato potesse parlarne. E' difficile spiegare cosa significano alcuni momenti più o meno connessi di Twin Peaks, ma anche loro sono stati shock, come le sfiammate dei draghi di GoT, solo più difficili da gestire e da fruire. E poi, ovviamente, ci sono stati anche invece i momenti culminanti, le esplosioni, ma costruite, ben collocate, arrivate come puntura alla fine di lunghi serpeggianti tentacoli.
Questo è, confusamente, il motivo per cui alla fine ho amato di più Twin Peaks che Game of Thrones. Diciamocelo, quest'anno GoT è stato così ignorante e caciarone da risultare notevolmente divertente, in generale, ma è stato qualcosa che, dentro, ho sempre visto come effimero, come troppo effimero. Riguarderei GoT? Ma no, manco per sogno. Una volta che saprò come va a finire ne sarò soddisfatto. Riguarderei Twin Peaks? Se avessi tempo e modo, ecco, probabilmente si. Sarà che invecchio, ma questo per me è divenuto un parametro importante per giudicare un prodotto.
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