Strip
serie
1033, 02/10/2021 - Boota
1033
02 . 10 . 2021

Funghi

Di tante ragioni per scaraventare un computer fuori dalla finestra (anche a finestra chiusa), questa che vediamo nella strip di oggi dev'essere la più scema.

L'autunno avanza e i videogiochi spuntano come funghi. I funghi uno deve andarseli a cercare nei boschi umidi, alzandosi da letto ben prima delle prime luci dell'alba, frugando nelle foglie marce in mezzo alla nebbia, spesso dopo aver fatto un'ora di coda stupidissima in un viottolo di montagna perché altre mille persone hanno avuto la stessa idea.
Con i videogiochi per fortuna va un po' meglio: per cercarli basta starsene a fissare uno schermo, un'attività che ormai ha fagocitato quasi tutte le nostre ore di veglia.
Un certo giornalista videoludico rifletteva su come è cambiata la sua professione negli anni: una volta le recensioni erano come mappe del tesoro che ti guidavano nel deserto o nella giungla... oggi sono come le guide turistiche in una città affollata. Il problema non è più trovare i giochi belli che vale la pena di comprare; il problema è gestire il proprio tempo e la propria attenzione, che non bastano mai, per dedicarli a quello che ci piacerà davvero tra le mille cosine che si contendono il nostro interesse. Magari tutte equamente gratuite con i servizi su abbonamento.
Qui su FTR siamo vecchissimi, nel caso a qualcuno fosse sfuggito, e si sa che il tempo a disposizione per i videogiochi è inversamente proporzionale all'età (ma a un certo punto invece tornerà a crescere, se sopravvivremo abbastanza a lungo)... quindi questo problema lo sentiamo fortissimo. Lo sento fortissimo io in questi giorni, in cui il settore del divertimento elettronico sembra aver iniziato la ripresa dopo i rallentamenti dovuti alla ben nota Situazione.
I giochi belli dunque spuntano come funghi in autunno quando l'umidità è proprio giusta; ovunque mi giro vedo tanti giochi bellissimi, decisamente troppi. È un bel problema, certo, se paragonato a tanti altri...
E al problema della microgestione dell'attenzione si unisce un secondo problema altrettanto fastidioso: il paradosso per cui giocare i giochi subito appena escono è sempre la scelta sbagliata. Non importa quando siamo tentati, quando ci appare succoso e invitante quel giochetto fresco fresco appena sfornato... è sempre la scelta sbagliata perché i giochi all'uscita sono nello stato peggiore in cui potranno mai essere, e da lì potranno solo migliorare con aggiornamenti ed espansioni, e come se non bastasse costano pure di più.
Io vi vedo eccome, giochi belli! Ma non ho tempo per tutti, e quando ce l'ho mi conviene sempre pazientare.

E dunque non ti farò mio appena esci, Voice Of Cards: The Isle Dragon Roars. Per quanto mi tenti con le tue illustrazioni deliziose e un Trio Meraviglia di grandi nomi al design e alle musiche e alla storia... aspetterò. Ho giocato però la demo, e aspettare non sarà facile.
I gioch di carte non mi hanno mai interessato, e infatti questo non è affatto un gioco di carte: i suoi meccanismi sono quanto di più tradizionale si possa chiedere a un RPG giapponese, e le carte sono solo estetiche. Tutto in questo gioco è fatto di carte, che il giocatore può prendere in mano, esaminare e spostare, ma non si gioca secondo le regole delle carte, non si collezionano carte... le carte sono il fondamento ontologico del mondo di gioco, e basta. Un modo geniale per contenere i costi di sviluppo.
Detto questo, si tratta di un titolo di Yoko Taro (o meglio, un titolo a cui Yoko Taro ha concesso di prestare il suo nome mentre faceva altro), il che ci obbliga a stare all'erta. Non dobbiamo lasciarci ingannare dal gameplay tradizionale, dai chara-design piuttosto tradizionali, dalla storia alquanto tradizionale anche se stranamente incentrata sulla medicina più che sulla magia (anche se la demo è il prologo della vera storia del gioco completo)...! No, Yoko Taro, stavolta non mi freghi! Ormai ti conosciamo. I toni blandi e rassicuranti sono una maschera che ti sei messo per prenderci di sorpresa con la guardia abbassata.
O almeno spero!
Voglio dire che non mi stupirei se a metà gioco un personaggio stracarino si suicidasse per l’angoscia di aver scoperto che è intrappolato in una carta da gioco.
Vedremo. La figura dell'Imperatrice col mal di stomaco ha catturato tutto il mio interesse, così come un paio di musiche stratosferiche, ma aspetterò. Per ora lasciamolo lì, questo giochino, attendiamo le recensioni come i cuori pavidi che siamo, attendiamo le patch che correggeranno alcuni difetti piuttosto fastidiosi già visibili nella demo, attendiamo magari un'edizione deluxe con tutti i DLC e un taglio di prezzo.
È questo che ci insegna la saggezza della vecchiaia. Ma che fastidio!

Lo-Rez: arte, storia, web design
02 . 10 . 2021

Who control the spice

Dobbiamo necessariamente cominciare parlando di cosa sia Dune per me. C'è qualcosa, una qualche affinità, tra me e l'opera di Herbert, che forse non sento per nessun altro mondo letterario e non. Come se Herbert non fosse riuscito solo ad assemblare un universo fantastico e solido, ma mi avesse mostrato un universo vero, distante da noi, estremamente più ricco della realtà che viviamo, più entusiasmante. Da qualche parte, la galassia di Dune, per me, esiste.
E' cominciato tutto così. E Dune 2 è probabilmente il modo più sbagliato per avvicinarsi al mondo di Arrakis perché la descrizione di quell'universo narrativo nel gioco è supina alle logiche del gioco stesso, rivista a piacere (Ordos? Who Ordos?) e ridotta a orpello di qualcos'altro. Però, se ci pensate, Dune 2 non può essere definito solo un gioco, perché è stato un crocevia di destini: ha inventato un genere, ha mandato nell'olimpo una casa di sviluppo come i Westwood e a suo modo è stata di ispirazione perché un'altra, la Blizzard, avviasse una saga che a sua volta l'ha fatta ascendere al mito. E' quindi con orgoglio, in definitiva, che rivendico l'affetto per il videogioco e per l'universo che mi ha mostrato. Crescendo però ho trovato che c'era moltissimo di più.

Vi risparmierò, magnanimo, tutti gli altri miei passaggi personali attraverso film e libri, un'altra volta magari, oggi però dobbiamo proprio dire del film di Villeneuve e ci vorrà un po', temo, non credo sia il caso di divagare oltre.

Villeneuve prende in mano il progetto di Dune (film maledetto, film impossibile) dopo aver stupito il mondo con Arrival e soprattutto essere sopravvissuto a qualcosa come il seguito di Blade Runner. Rispetto quello che significava far tornare Deckard il film del pianeta-deserto è quasi più semplice perché non c'è nessun mito da profanare. Dune è un libro e un film a detta di tutti "sbagliato" (ci torneremo) quindi può benissimo tornare a essere affrontato per il grande schermo. Anche se non siamo più nell'era giusta per narrare di grandi imperi galattici (torneremo anche su Foundation, prima o poi) la storia è potente, il testo ammantato di una certa sacralità, un vaso di miele da far colare su pellicola, qualcosa che si può affrontare con gioia e eccitazione.
Il cinema di Villeneuve è un film di immagini potenti e grandiose, ha quasi quel taglio anni 70 che non ti aspetteresti più. Grosse astronavi viste dal basso, grandi panorami da mozzare il fiato, trombe del giudizio a rimbombare su titaniche costruzioni. E' esattamente quello che ci vuole per rendere la grandezza di Dune e infatti quello che si vede nel film è assolutamente perfetto. Chiunque abbia amato il libro non può che commuoversi di fronte a certe realizzazioni e anche dettagli come i semplici ornitotteri sono resi in maniera che fa venir voglia di gridare. Non si tratta solo di usare la CG, si tratta di come si usa la CG e soprattutto quanto si crede in ciò che si vuole mostrare (in questo quadro, ovvio, ricordatevi sempre di metterci Zimmer, eh).
Non condivido invece molto la scelta dei colori, troppo pochi in diverse situazioni. E' difficile, ovviamente, rendere a schermo credibili personaggi come gli Atreides, il pericolo di rotolare nel kitch è dietro l'angolo, ma si poteva certamente fare di più. Questo si riflette sui costumi, che sono in realtà bellissimi, ma nelle grandi scene non risaltano, è evidente che lo stile Harkonnen è molto diverso dallo stile Atreides, ma a colpo d'occhio sono macchie nere contro macchie nere.
A parte questo, però, ci sono cose su schermo che sono quelle che avresti voluto vedere mentre leggevi il libro e avresti voluto vederle proprio così. Questo è il più grande merito del film... e il suo più grande difetto.

Abbiamo parlato di queste immagini colossali come del tratto caratteristico del cinema di Villeneuve, ma in un film come Arrival, per esempio, agli attimi in cui l'astronave aliena si imponeva sulla scena si alternavano altri in cui venivano costruite scene più terra-terra, prosaiche, diciamo, dove la velocità era tutta un'altra così come la funzione. In Dune questi momenti non ci sono praticamente mai e chi ne risente è la trama e lo sviluppo dei personaggi che, dovendosi barcamenare in mezzo alla resa ciclopica della regia a volte ne vengono schiacciati, emergendo faticosamente. Dune appare come una galleria di grandissimi quadri, ma a volte si fa veramente fatica ad amarlo come storia, questo detto da qualcuno che la storia la conosce a memoria. Forse la sensazione per chi non la conosce è ancora più straniante (e questo è più o meno un inner-joke, anche se quasi non voluto).
Anche sulle scene di azione c'è una certa sciatteria. Gli Atreides giungono su Dune in imponenti armature, ma quando vengono assaliti dagli Harkonnen si lanciano a combattere in pigiama. I duelli uno contro uno mancano di un maestro d'armi che gli abbia dato carattere, sono risse grezze. E' ovvio che non sono questi aspetti centrali per il film, ma stridono un poco, durante la visione.

Ci sono, ovviamente, molti rimaneggiamenti dei contenuti, figli di diverse esigenze. Certi aspetti di Dune sono stati proprio accantonati, a volte in modo un po' eretico. I Mentat, per esempio, pur presenti sullo schermo non hanno un minimo di presentazione né spazio abbastanza per essere sviluppati tanto che, per dirne una, la morte di Piter passa praticamente inosservata. Il rimaneggiamento di Gurney Halleck e Duncan Idaho è evidentemente dovuto al fatto di aver spezzato il film in due. In questa prima parte si dà quindi massimo risalto a Duncan Idaho, dal suo stretto rapporto con Paul alla sua morte, con la speranza probabilmente di vedere Gurney in tutto il suo splendore nella seconda parte.
Il vero problema, però, è la spezia. La storia di Dune è satura di spezia perché la spezia è qualcosa di pervasivo, onnipotente, assoluto. La spezia è il vero punto in cui l'universo di Herbert travalica i confini della fantascienza e si avventura nella zona grigia della mitologia e del sacro. Il film di Villeneuve manca di cogliere questo punto, almeno in questa prima parte, tanto che non si capisce quasi per quale motivo l'intero universo dovrebbe radunarsi intorno ai destini della piccola palla di sabbia nota come Arrakis. A discendere, non viene dato il giusto peso nemmeno a tutti gli altri aspetti mistici della saga, relegando al compitino le Bene Gesserit e in qualche modo facendo venir meno proprio la potenza del cinema di Villeneuve, pur così pervasiva, in presenza dei vermi delle sabbie.
Anche qui la speranza è che la seconda parte corregga il tiro, anche perché è veramente difficile pensare l'ascesa di Muad'dib (il topo, sia chiaro, non vive su quel pianeta) senza connetterla a tutto l'impianto sacrale basato sul melange. Se vogliamo è anche difficile pensare come l'efebico Timotino potrà guidare il Jihad contro l'impero con quel suo phisique du role, ma magari una dieta ricca di proteine gli verrà in aiuto.

Lo so, ho già scritto molto, ma concedetemi, prima del finale, un altro paio di considerazioni. La prima è che torno indietro con la mente al 2002 e ripenso all'uscita della Compagnia dell'Anello e ricordo l'emozione per il progetto. E' un'emozione che, in questa opera di Villeneuve secondo me non è presente. Là mi sembrava di vedere un regista che credeva nel suo racconto e voleva mostrarlo al mondo, tanto da aver già pianificato completamente la saga e che, soprattutto, combatteva contro un sistema che si diceva non fosse pronto a ricevere una trilogia del genere. C'era il brivido della scommessa e la spinta a fare qualcosa di eccezionale. Qui abbiamo un film il cui seguito (quantomai necessario) non è stato da subito sicuro e ha avuto bisogno di veder prima concretizzarsi gli incassi. Parliamo poi di un'opera annegata oggi in un oceano produttivo che non vede più i film e gli universi finire veramente e non chiede di "dare tutto". Io penso che se avessi visto in questo Dune la "magia" che ai tempi era evidente per la riduzione di Tolkien mi sarei emozionato moltissimo per quello che è il mio rapporto col libro, invece questa cosa è venuta a mancare e come al solito non so se sono io o se è il mondo che sulla magia non scommette più.

Poi, sia chiaro, potrà sembrarvi una bestemmia questa mia affermazione, ma Villeneuve una e una sola cosa dice con questo film: Lynch aveva ragione.
Al di là del fatto che probabilmente il matrimonio tra David Lynch e un film di fantascienza del genere non doveva farsi perché Lynch ha poi dimostrato di voler seguire altre vie, le critiche che ai tempi si mossero al suo film sono i pilastri su cui si basa questo. L'ossessivo ricorso alle visioni, per esempio, con un personaggio come quello di Chani che sostanzialmente si sviluppa unicamente tramite sogni e anche se non ripete ossessivamente ogni dieci minuti "Parlami dell'acqua del tuo pianeta, Usul" è una rappresentazione un po' ingombrante di qualcosa che nel film a conti fatti non ha un vero ruolo fino ai cinque minuti finali. Dice poi la leggenda che Lynch sia stato cacciato via perché stava facendo un film "troppo lungo", ma bene o male fu congedato dal set all'incirca nello stesso punto in cui Villeneuve finisce questa sua pellicola. Lui, ai tempi, aveva forse un'ora e mezzo di girato dove Villeneuve ha sviluppato lo stesso in DUE ORE E QUARANTA. Insomma, Dune ha bisogno di sei ore per essere reso e, in parallelo, di un'epoca che in qualche modo queste sei ore riesce a gestirle. L'ipertrofica voce narrante di Lynch era troppo, ma non è che Villeneuve manchi di momenti intimi e purtroppo la voce narrante di Lynch era spesso quello strumento narrativo che permetteva di far entrare nel film molti di quegli aspetti dell'opera che questo film 2021 ha scelto invece di lasciare semplicemente fuori.
Insomma, per certi versi sembra che dal film di Lynch non ci riesca veramente ad allontanare, per quanto vituperato e osteggiato sia oggi come quarant'anni fa.

Ho detto, credo, tutto quello che avevo da dire. E' molto, ma come vi ho detto Dune è un'opera che mi parla tantissimo e voi sapete che non amo limitarmi, in questa colonna. Ci sono sicuramente aspetti su cui sarebbe meritevole un vero e proprio dibattito e altri dettagli che forse una seconda visione avrebbero fatto emergere, ma la massa prodotta mi soddisfa. Qual è però la sintesi di quanto scritto? Diciamo che, appiattendo tutto sulla poltroncina del cinema, ho goduto della visione di questo Dune, ho recitato assieme agli attori le frasi più sacre, ne ho amato le immagini. Però questo film non è Dune perché forse nessun film potrà mai esserlo veramente e come pellicola di per sé cede qualcosa per aver dovuto affrontare qualcosa di ciclopico, troppo immenso per essere realmente abbracciato su un grande o su un piccolo schermo. Andate a guardare Dune, è un ottimo film. Poi andate a leggere il libro di Dune, è un grandissimo libro. Poi, dopo averlo letto tornare a guardare Dune. Arrakis è forse un mondo di cui non si ha mai abbastanza.

“Benedetto il creatore e la sua acqua”

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