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serie
738, 31/10/2015 - Contro natura
738
31 . 10 . 2015

La Maschera del Demonio

Ognissanti ci opprime come la minacciosissima maschera chiodata nella prima, indimenticabile inquadratura dell'eponimo La Maschera del Demonio (1960), il capolavoro del nostro Mario Bava.
Di lì a pochi anni il cinema nostrano sarebbe andato a rotoli, ma quel glorioso bianco & nero italiano insegnò al mondo come si racconta l'orrore gotico. Io comunque continuo a preferire la comicità involontaria dei grandi classici Hammer, piuttosto che la depravazione altrettanto maldestra delle produzioni eurohorror: tutta la vita Vampiri Amanti piuttosto che Le Tombe dei Resuscitati Ciechi.

Ehm.

Ma Halloween non è soltanto il festival dell'orrore: a quanto ci dicono i cugini statunitensi, pare che siano ammessi riferimenti a tutta la cultura popolare. E allora colgo l'occasione per rimediare a una nostra mancanza di settimana scorsa, quando NON abbiamo ricordato Ritorno al Futuro (1985) nel giorno che gli appartiene, il 21/10/2015.
Guardare oggi quel film è un duro colpo al nostro cuore, perché così tanta nostalgia della nostra infanzia si concentra tutta in quella pellicola. Non parlo tanto del film in sé, quanto dello stile con cui venivano realizzati quei capolavori degli anni '80, come Ghostbusters o i Goonies o Grosso Guaio a Chinatown.
Uno stile che è passato per sempre, come tutti gli stili passano. Il problema è che oltre allo stile è passata anche la maestria con cui quei film erano realizzati, se si escludono rarissime eccezioni nel cinema contemporaneo (Mad Max: Fury Road).
Fa quasi male la consapevolezza dell'arte e della cura con cui era costruita ogni singola scena di quel film: narrazione pura, umile e sincera, densissima senza mai confondere lo spettatore. Non una battuta superflua, un'inquadratura inutile, una nota fuori posto, un oggetto di scena senza un ruolo preciso nell'economia narrativa.
Era quello il futuro.

Lo-Rez: arte, storia, web design
31 . 10 . 2015

Il piacere di narrare

(il titolo dell'editoriale non è una gag su Halloween. Voletemi bene.

Finire un vecchio Layton, in fondo, non è diverso dal finire un nuovo Layton, un po' come una volta sostenevo che le avventure grafiche si possono giocare indipendentemente dall'epoca in cui sono uscite (lo sostengo tutt'ora). Quello che cambia, almeno in parte, è il fatto che, mentre un'avventura grafica aveva il suo gameplay nella storia, in un Layton la storia è un supporto al gameplay, sebbene la sua qualità e i mezzi impiegati per realizzarla la rendano comunque una parte importante dell'esperienza.
Se vogliamo, il meccanismo con cui i Level5 fanno disgustose quantità di denaro è proprio questo: investono abbondanti risorse in quello che riguarda la realizzazione dell'ambientazione, dei personaggi e della narrazione, con risultati a livelli di un buon cartone animato, e poi gli montano sopra un gameplay che magari non è digeribilissimo, ma che inserito in un contesto del genere riesce a rimanere intrigante. Layton è un pallosissimo numero della Settimana Enigmistica, ma intanto l'assurda storia che gli si dipana intorno rende eccitante l'idea di completare uno scialbo puzzle.
Questa logica, in fondo, non è molto differente da quella che sostiene Ace Attorney o anche, in termini diversi, Inazuma Eleven (che sto giocando in questo momento). Anche lì la realizzazione visiva "intrigante" è un potente lubrificante.
Se guardassimo il gioco in sé e per sé potremmo semplicemente ammettere che l'idea funziona e comunque non è male spendere soldi per prodotti del genere, ma la cosa assume una rilevanza ancora superiore vista nella prospettiva di serie lunghe e fortemente serializzate. Una volta costruito l'impianto di un Layton realizzare un gioco o realizzarne cento ha potenzialmente gli stessi rischi.
Che cosa significa realizzare un Layton oggi? Significa prendere il proprio team di "cartoonist" e chiuderlo in uno sgabuzzino fare una storia. Intanto, qualcun'altro, fabbrica un altro montone di enigmi da sottoporre agli utenti. Quando i due gruppi hanno finito si mescolano le cose, le si impacchetta e le si distribuisce. Il tutto senza toccare cose delicate e aleatorie come, per esempio, le meccaniche di gioco e senza dover fare rischiose ricerche di gameplay. Il Layton è nuovo perché la storia è nuova e se è una buona storia tutto il resto funziona comunque.

La postilla "se è una buona storia" dimostra che questo approccio non è solo una sorniona mossa di marketing, ma qualcosa che ha comunque una stilla di nobiltà. Layton funziona perché gli autori del "cartone" di Layton sono autori capaci di fornire una notevole qualità. E se questa qualità non fosse notevole probabilmente il trick non funzionerebbe. Se ci pensate, in un mondo che ormai è fatto di catene di montaggio di sviluppatori e designer che si appiattiscono su gusti e mode, un investimento così esplicito sul lavoro di certe persone in ottica di ottenere un risultato tanto particolare è qualcosa di coraggioso e nobile, come non si vede più troppo in giro.
Un po', per chiudere il parallelismo, come quando grandi penne scrivevano le storie delle avventure grafiche.

“Love is blind / And love deceives you / You came along and captured me / Now I'm a prisoner of your eyes / Trapped in time / I cannot leave you / I'm just a prisoner of your eyes / As each day goes by / I've given up completely / I've locked myself inside your heart / And thrown away the key”

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